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Capitolo XIII - Appunti sparsi Empty Capitolo XIII - Appunti sparsi

Mar Mag 07, 2024 4:14 pm
Appunti sparsi sul cap. XIII di In terra ostile, parte dei quali sono stati esposti durante la diretta X.

La natura della democrazia poggia su un’illusione (p. 144-146)

La natura della democrazia è etica (in sintesi, applicare un principio sulla base di un’idea o ideologia). Non è strumento per risolvere i problemi pratici di una comunità – ne dubitavano anche gli antichi Greci – bensì estensione del concetto illuminista di egualitarismo. Instaurare un sistema basato sulla democrazia non significa cercare di rendere il mondo migliore bensì un tentativo di dimostrare la presunta uguaglianza degli uomini.
La curiosa delega, propria della democrazia, che va oltre la delega in bianco (l’elettore non conferisce un mandato bensì l’eletto cerca di acquisire il conferimento del mandato – ché poi, i termini e le condizioni di tale mandato non vengono né comunicati né conosciuti con certezza), delega ai rappresentanti politici che tra l’altro non sono nemmeno impegnati a mantenere le promesse elettorali, mostra che alla base della democrazia rappresentativa vi sia un’illusione, se non l’impossibilità di realizzarla.
Il voto diventa una cerimonia che non influisce sul sistema politico perché esso è concepito in modo tale da funzionare a prescindere da chi lo governa, mentre le modalità di funzionamento del sistema sono decise altrove.
La democrazia è il peggior sistema di governo (esclusi tutti gli altri) ma proprio per questo ci si rassegna a tenersi questa democrazia concepita proprio per non mantenere le promesse. La promessa verrà mantenuta sempre domani, per far digerire i periodici e inesorabili aumenti delle tasse.

Come la democrazia si rivela nella sua non serietà (p. 149-151)

In quest’ultima parte del capitolo Boni Castellane è apocalittico, fa quasi paura a leggerlo. Attraverso il modo in cui si sono per così dire “evolute” le guerre Boni ci prospetta un futuro di morte e distruzione. La guerra ossia la risoluzione “violenta” (con la forza) dei conflitti c’è sempre stata, solo che il progressismo, a causa della sua intrinseca spinta alla continua espansione, l’ha resa sempre più grande, vasta, estesa, facile (“democratica”?) e soprattutto più “impersonale”.
Dalla guerra come spinta a prevalere su un antagonista alla guerra come spinta a distruggere tout court.
Nel duello tu sapevi chi era il nemico, le tue azioni andavano direttamente a incidere sul nemico e vi erano per così dire delle “regole”, delle convenzioni che lo regolavano (se pensiamo ai “regolamenti di conti” fra criminali in fondo sono molto più “trasparenti” dei bombardamenti aerei, “ci si mette la faccia”, si è responsabili delle proprie azioni).
Con la battaglia di Pavia – evento ricorrente e fondamentale nella letteratura “boniana”, 1525 dove il re di Francia Francesco I fu sconfitto da Carlo V d’Asburgo – l’uso estensivo delle armi da fuoco “allontana” per così dire i contendenti ma fa danni maggiori e con più facilità. E così via i cannoni, le bombe dagli aerei, i missili intercontinentali, l’arma atomica o anche l’arma informatica (visto che tutto ormai dipende da un computer), i contendenti si allontanano, si nascondono, ma più si nascondono più usano armi potenti e distruttive. La relazione diretta fra potere e invisibilità, lo avevamo visto nei capitoli precedenti.
Il fronte di guerra si allontana, quasi svanisce perché è il mondo tutto a essere teatro di guerra. Una progressione tragica che non può che portare alla distruzione di tutto, nel segno della più classica logica nichilista.
E sullo sfondo (o meglio, come dettaglio in primo piano), la democrazia come rituale, come illusione di poter governare il mondo o “salvarlo” dalla distruzione, mentre in realtà chi detiene il potere ci porta inesorabilmente in direzione di essa. Più o meno come l’illusione di controllare le forze del clima col simulacro del green mentre al contrario la natura segue il suo corso senza curarsi di quegli esserini umani che metteranno il cappotto alla casa e guideranno l’auto elettrica.
In terra ostile quindi la democrazia non è una cosa seria.
È un dettaglio, un qualcosa di ininfluente, una rappresentazione teatrale. Ma a questo teatro tu sei costretto a partecipare, o più correttamente sei costretto ad assistere. La storia è già scritta, cambiano solo gli attori, la coreografia e i dettagli della scenografia. Presenza, più che partecipazione. Non ti puoi sottrarre perché è un teatro che è allo stesso tempo inutile e drammaticamente influente sulla tua vita.
In quanto “presente” ti è comunque concesso di usare la tua presenza come meglio ti pare, questa è la tua unica libertà in democrazia. Puoi fare quello che vuoi con la tua presenza, col tuo voto, ma lo devi fare anche se “là” non ci arriverai mai. Lo devi fare perché, anche se il mondo guidato dal progressismo è destinato alla distruzione, il teatro della democrazia influisce sulla tua vita pratica.
La politica come sappiamo non è fonte di salvezza e ci deve interessare solo quando le sue decisioni ci toccano in quanto individui. I grandi ideali stanno altrove, chissà dove.
Il tema è stare “dentro” (la politica, la democrazia) in un modo tale da starne fuori e che non ci renda la vita invivibile. La salvezza sta qui. È l’arte del farsi piccoli che scopriremo nei prossimi capitoli.

Un curioso parallelismo tra Boni Castellane e il politologo “laghée”

Qui intendo rielaborare i contenuti del cap. XIII alla luce del pensiero politico di uno studioso il cui testo sono andato subito a recuperare, e che sono convinto Boni Castellane conosca bene.
La finzione scenica della democrazia rappresentativa, tema di questo capitolo, a mio parere trova corrispondenza nel concetto di “regime rappresentativo” che ho letto in quest’altro testo.
La democrazia così come la conosciamo è infatti un regime, nonostante nasca apparentemente dal basso, dal popolo… “dall’antifascismo”.
Ma cos’è il regime rappresentativo?
Il regime rappresentativo è quello che – mediante la finzione giuridica della rappresentanza – attribuisce il potere sovrano e i poteri minori a collegi, a gruppi di persone i cui membri debbono a cadenza regolare rimettere in palio tali poteri, consentendo che altri aspiranti contendano loro la “signoria sul séguito”, altrimenti detto il dominio sulla popolazione.
Regime rappresentativo è la definizione corretta del contesto politico attuale (post-bellico): l’espressione Stato costituzionale infatti indica caratteri comuni ad altri ordinamenti precedenti la Rivoluzione Francese, mentre le espressioni “democrazia”, Stato popolare o Stato liberale rimandano a concezioni ideologiche e non a concrete strutture istituzionali.
Il regime rappresentativo, come ogni tipo di ordinamento, poggia su delle “finzioni”, che costituiscono in sostanza le giustificazioni, i pretesti per tenere in piedi un determinato sistema politico.
Da esse discende il modo in cui si forma la classe politica e come quest’ultima si rapporta con suo séguito (la popolazione: di fatto il “séguito” è quasi inteso come massa di followers, sia volontari che involontari, chi si astiene è di fatto un séguito involontario).
La principale finzione è l’idea che debbano essere i cittadini a governarsi, mediante rappresentanti da loro scelti in autonomia e libertà.
Questo autogoverno però è una finzione perché la crescente complessità delle funzioni dello Stato impedisce al cittadino comune di padroneggiare la gestione della cosa pubblica, costringendolo ad affidarsi a professionisti della politica, e ciò svuota il principio per il quale i cittadini siano effettivamente liberi di scegliere i rappresentanti.
I rappresentanti professionisti della politica quindi si scelgono tra loro e si destituiscono, si combattono sempre tra loro, mentre l’elettore ha l’apparente libertà di scegliere, ma solo all’interno di un menu precostituito dai rappresentati (concetto che abbiamo visto nei capitoli precedenti di Boni).
Il voto degli elettori perde così ogni valore determinante e diventa l’ultimo anello di una catena di conferme clientelari innescata da una decisione di un vertice che nessuno sa chi sia né dove sia.
Gli unici elementi di cambiamento sono le prove di forza e le decisioni interne dei membri della misteriosa oligarchia dominante.
Questo lo abbiamo letto spesso in Boni.
Il regime rappresentativo si basava sul presupposto che i governanti fossero costretti a fare l’interesse dei governati, poiché sull’operato dei governanti sarebbe giunto il giudizio imperscrutabile e imprevedibile dei governati.
Invece oggi chi detiene il potere è in grado di conoscere, sfruttare e indirizzare l’opinione degli elettori grazie a numerosi strumenti tecnici di analisi e condizionamento, svuotando quindi quel giudizio dal quale la loro sorte avrebbe dovuto dipendere.
La conoscenza scientifica della politica ha fornito le armi per distruggere il mito del regime rappresentativo e a smascherare l’attuale regime come regime fondato sui vincoli personali, sui legami tra uomo e uomo e che ha regnato per secoli tra la fine della civiltà classica e l’età moderna inoltrata – il Medioevo – ossia fra due ordinamenti ispirati all’impersonalità del comando, alla sovranità astratta della norma e alla concezione burocratico-professionale del governo.
Il concetto dell’attuale impersonalità del potere – e di un potere che si manifesta proprio nella sua assenza – lo abbiamo visto nei capitoli precedenti di Boni.
Questa non è una crisi transitoria del regime rappresentativo: è il principio della sua fine o meglio della sua trasformazione in un regime del tutto diverso.
Qui si odora quella situazione di “neofeudalesimo” teorizzata da alcuni, io personalmente (scusate il francesismo) direi cosca mafiosa, come disse lo studioso a cui mi riferisco molti anni dopo.
Come se ne esce? O come si reagisce a questa tendenza?
Se questo studioso propose un modello politico profondamente diverso, se non opposto, da quello attuale – poiché ai suoi tempi era comprensibilmente legato all’idea di Stato e di politica come contratto e per fortuna o purtroppo non visse abbastanza a lungo per assistere alla reazione violenta dello Stato dal 2020 a oggi – Boni invece si è sbarazzato dell’idea di politica come patto, come matrimonio, e lo proporrà negli ultimi capitoli di In Terra Ostile.
Ora, da chi sono state dette tutte queste cose?
Il regime rappresentativo e le sue conseguenze furono il tema di un discorso pronunciato nel 1964 dalla buonanima di Gianfranco Miglio quand’era preside di Scienze Politiche all’Università Cattolica di Milano.
Ritengo che molte cose scritte in questo capitolo di Boni siano state dette anche da lui.
Al netto del giudizio che si può dare di colui che negli anni ‘90 fu etichettato come l’ideologo della Lega – ma le sue idee preesistevano alla Lega – va notata l’attualità di questo suo discorso (che invito a recuperare nella sua interezza) e come lui abbia colto le ragioni della decadenza di questo Paese, discorso che ripeto risale al 1964, e soprattutto sono convinto che Boni conosca bene il suo pensiero, poiché a volte mi ritrovo a cercare le sue vecchie interviste dopo aver letto certi post di Boni.
Va ricordato inoltre (cosa non evidente, alla luce della politica degli anni ‘90) che Miglio aveva un background cattolico e che, cosa ancor meno evidente, la sua proposta politica in fondo a mio parere trae origine dal principio di sussidiarietà pilastro della dottrina sociale della Chiesa.
In parole povere, sussidiarietà è che se io che sto sotto posso fare una cosa in modo efficiente, tu che stai sopra non devi farla al mio posto né mi devi dire come la devo fare.
Proprio questo, al di là del giudizio sul sistema politico auspicato da Miglio, mi fa proprio pensare che Boni conosca bene il suo pensiero.

A Tristano Destinato e PrvaZylm piace questo messaggio.

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