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Acton Bell
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Commento estetico al capitolo 1 Empty Commento estetico al capitolo 1

Mar Mar 12, 2024 11:53 am
Ogni libro che si rispetti ha un incipit meritevole. Questo, nello specifico, produce un effetto raggelante: è l’amara presa d’atto di vivere in una terra che ci è nemica nella maniera più totale. Il pericolo non è più quello di perdere i nostri beni e le nostre ricchezze, come in una tipica situazione post-bellica, ma quella di perdere addirittura noi stessi perché il potere opprimente aspira a smantellarci dall’interno. Come? Non solo dispiegando la sua pericolosità e rapacità nell’impadronirsi degli oggetti per poterne disporre a suo piacimento, come ha sempre fatto, ma trasformando esso stesso le persone (i soggetti) in oggetti da controllare e gestire fin nel loro intimo: nelle abitudini, nelle piccole scelte quotidiane, nel linguaggio. Nei punti di riferimento familiari, nei rapporti interpersonali ormai diventati opportunistici, nel desiderio di essere imprevedibilmente liberi, almeno nello spirito. L’appagamento di tale estensione del controllo dalle cose alle persone è dato soprattutto dal riuscire a piegare una qualsivoglia resistenza, una qualsivoglia intenzionalità, approfittando del fatto che questi soggetti ormai hanno così tanto perso la cognizione di cosa li renda tali, come individui e come società, che possono essere manovrati con poco. Li si può comprare, in sostanza: o materialmente, cioè garantendo loro del consumo a basso costo e del piacere di basso livello, oppure ideologicamente, vendendo loro un po’ di fumo per farli convergere spontaneamente e a lunghi passi verso una “nuova normalità”. Nessuna  sopraffazione, dunque: essa è un atto violento e dopo due guerre mondiali non possiamo proprio permettercela, anche perché si è fatto tanto per apparire civili! Non potendo dunque mostrare il suo vero volto, il potere dovrà necessariamente camuffare in modo ipocrita le proprie intenzioni: con nuove conquiste, nuovi ideali, col politicamente corretto. Nel frattempo ci sarà chi abboccherà, non accorgendosi di andare incontro alla propria rovina. A Boni Castellane, invece, che osserva sconcertato il susseguirsi di queste dinamiche, viene il terribile sospetto che esse possano essere protratte senza soluzione di continuità. E chiede al lettore: quanto sei disposto a vendere di te stesso e fino a che punto puoi accettare di essere intimamente corrotto per mantenere la superficiale parvenza di una vita riuscita e accettata dalla società dei benpensanti? Non sarebbe il caso di metterci un punto e fermare l’emorragia? Di istituire un limite? A dir la verità, anche la necessità di ribadirlo è sconfortante, perché ciò indica che l’individuo non è più in grado di comprendere autonomamente, per buon senso o intuizione, che il troppo stroppia. E la correttezza antica, quella tradizionale rifugge l’eccesso: sta nel mezzo.
Da bravo nietzscheano Boni Castellane procede genealogicamente, e cioè, andando cercare le cause che hanno prodotto questo disfacimento; i sintomi sono sotto gli occhi di tutti. La causa è l’idea di progresso, che fa presa sui più (giovani) come rivoluzione, come “desiderio di cambiare il mondo”, di evoluzione quando sarebbe meglio liberare la testa invece: in realtà, la smania di progresso è dovuta all’odio per tutto ciò che è attorno e soprattutto ad un desiderio di rivalsa circa la propria condizione nel mondo. L’uomo è perfettibile, plasmabile: dunque dev’essere migliorato! Non si capisce né come questa conclusione imperativa possa essere presentata come necessaria, né tantomeno in base a quale criterio si debba impostare un cambiamento deciso poi da chissà chi. Il risultato è comunque che i cambiamenti sono imposti (e dunque subiti) e non importa a nessuno che i corpi li rigettino, che l’innesto, che l’artificiale alterazione della natura umana, sia insostenibile. Bisogna far finta di nulla e andare avanti, superare la condizione presente; e quando la si sarà superata, quella condizione sarà divenuta obsoleta e occorrerà superarla di nuovo. E così di nuovo, all’infinto, in maniera affannosa e insoddisfatta, come se non si potesse mai raggiungere una stasi, un equilibrio. La perfezione edenica tanto millantata ma non conseguibile. Ovviamente: la nozione di “paradiso in terra” è un mito nel migliore dei casi, una truffa nel peggiore. Così com’è truffa, il progresso: una delle tante truffe che Boni Castellane smaschera in questo libro, mostrando che il re è nudo.
In questo capitolo la prima che incontriamo è per l’appunto il progresso. Il principio su cui esso si basa è quello del superamento; eppure il progresso ne è esente. Ne vien fuori una contraddizione strutturale che, se non fosse per le nefaste conseguenze che produce, sarebbe anche comica. Il progresso non può ammettere di doversi fermare, come non può ammettere di non funzionare bene (e in alcuni casi affatto): pena sarebbe la sua negazione, il suo essere assolutamente innecessario. Ecco perché va avanti imperterrito e indifferente.
Il progresso si affaccia nella storia del mondo quando il pensiero razionalistico (che oggi diremmo analitico) ha modo di affermarsi una volta per tutte con l’Illuminismo e, nella sua furia riformatrice di Terrore e orrore, prosegue fino ad approdare al comunismo, che è più vicino a noi, nelle sue tre fasi: 1) la fase marxiana e anticapitalistica, 2) la fase socialdemocratica, e 3) la fase odierna in cui il comunismo è venuto a coincidere col neoliberismo. Ognuna sviluppatasi in antitesi alla precedente, come per Marx che lamentava l’alienazione del proletariato e Lenin che, con l’organizzazione della manodopera, creava le condizioni per poterla attuare; e come per la lotta universale al capitalismo prima e il sostegno al capitalismo dei buoni poi. D’altronde, cosa non si fa per restare a galla? La realtà è piegata o abolita per preservare l’idea e, ça va sans dire, il potere. Così accade che il progresso spiani tutto ciò che si è costruito sinora: dalla storia passata alla cultura, dalle tradizioni ai valori umani. Non deve restar nulla. Non ci si inquieta, però, per questo spettrale panorama che si prospetta perché si vende la favola bella e illusoria che il progresso ti farà star meglio, che le sue macchine lavoreranno per te che non dovrai più lavorare (o che sarai messo in condizione di non poterlo più fare – è questione di prospettiva). I problemi veri, però, non sono risolti: le esigenze umane non sono prese in considerazione, proprio perché il progresso non è in grado intervenire andando oltre il dato meccanico, oltre l’approccio pratico e fattuale. Se sotto alcuni aspetti può essere utile, non è in grado di coprire tutte le esigenze umane e, a lungo andare, potrà solo trasformare la terra in un qualcosa di arido, come poi vedremo.
La conseguenza principale è che in un’ottica di funzionalismo e funzionalità, tutto dev’essere sotto controllo e rientrare nei ranghi: la prima testa che salterà sarà quella del dissidente che mostrerà che una civiltà progredita solo tecnologicamente è zoppa e che la vita che essa presenta, oltre ad essere razionalmente improponibile, non appare nemmeno degna di essere vissuta. Ma la si impone lo stesso mettendo gli uni contro gli altri, in un divide et impera di lotta di classe fomentata, e cercando al tempo stesso di elargire dei contentini perché l’asticella di un futuro futuribile non può essere spinta troppo avanti – che poi si scopre il bluff. Allora si distribuiscono finte libertà: consuma quel che vuoi (magari fai shopping in Mali e al posto dei souvenir torni con un bambino); professati quel che vuoi in termini di sessualità che daremo sostanza, anche ormonale e chirurgica, alla tua follia; indottrina gli altri (specie se non hanno gli strumenti per capire e difendersi) che restaurarsi come Malefica o essere un maschio con una ventesima di seno, e organizzare corsi estivi per ragazzini “aspiranti trans” è pure incoraggiato. L’ubiquità sessuale è garantita, tanto se le cose vanno male puoi sempre ricorrere all’infanticidio o allo sfruttamento di qualche povera donna che per campare dovrà farsi ingravidare; i farmaci antidepressivi sono largamente distribuiti, così stai tranquillo, fino a quando non sarai più utile e allora lo stato ti addormenterà per non doverti salvare.
Ma la politica non dovrebbe intervenire in qualche modo per arginare la deriva? A quanto pare no: la politica può servire per portare avanti delle istanze e, se siamo fortunati, vederle realizzate e nulla più. È quindi inutile aspettarsi la salvezza. Godot non ci salverà: indi per cui dobbiamo salvarci da soli. E Boni Castellane ci illustra come.
La cosa essenziale è coltivare lo spirito critico, primario ad ogni azione e reazione: sottoporre al vaglio quello che si sente e, nel dubbio, considerare il mainstream come il sud della bussola quando il punto di riferimento è il nord. Una volta sintonizzatici su questa nuova frequenza, l’azione si concentra sullo sfuggire al sistema che mira a zittire chi non vuole conformarsi. Questo è possibile non mettendosi in mostra, ma sfuggendo ad ogni occasione per essere controllati, capire quando il silenzio può essere usato come arma difensiva e quando, invece, occorre opporsi. Ma soprattutto occorre recuperare fortissimamente la consapevolezza di ciò che si è attraverso tutto ciò che è servito a porci storicamente e culturalmente dove siamo; reincorporare una porzione di bello nella vita invivibile che ci viene imposta, impedendo a chi vorrebbe oltrepassare una soglia privata e sacra di accedervi. E all’interno di questo spazio nostro ritrovare quella contemplazione minima che, come insegna l’Anarca, non ci è dato di vivere più tutto il giorno e tutti i giorni. Perché il fronte dev’essere difeso, nell’azione esterna e nel quotidiano: pena la perdita delle nostre conquiste, del nostro modo di pensare la vita e, in ultimo ma non per ultimo, di noi stessi.

A TerraOstile, 8603, Boni, Micaela Tacconi, Shaitan78 e fcovone piace questo messaggio.

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