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Acton Bell
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Approfondimenti su La Terra Desolata (The Waste Land) Empty Approfondimenti su La Terra Desolata (The Waste Land)

Lun Apr 01, 2024 9:27 pm
The Waste Land è un’opera che non offre una lettura semplice: i costanti rimandi, gli spaesanti salti temporali e geografici richiedono che il lettore abbia una mente duttile e che sappia dove potersi aggrappare. Sono spesso presenti immagini, simboli, scene evocative, parole rivelatrici di una connessione con l’inesprimibile allo scopo di restituire l’immagine di un mondo che ormai non si riconosce neanche più. A prima vista è un insieme di sezioni poetiche apparentemente scollegate, in realtà unite da una fittissima rete di significati reconditi e profondi.

La prima metà è un’analisi fotografica, rappresentativa della realtà sociale e psicologica: se ne mostra il degrado, l’angoscia della nevrosi in ogni ambiente, l’improduttivo fluire delle vite degli individui in carrellata per mostrare che nel passato, come nel presente, nel mito come nella quotidianità, le differenti sfumature dei vari stadi della sofferenza interiore dell’uomo. Eliot descrive lo spettacolo della ripetizione meccanica che giunge frenetica fino alla degradazione delle stesse azioni.
Bisognerà attendere la seconda parte del poemetto perché il discorso di Eliot si avvii verso il riscatto, originato non solo dalla speranza del poeta, ma anche dalla certezza del ripetersi del ciclo naturale e mitico di vita-morte-rigenerazione. Così come avveniva in natura, avverrà nel mondo creato, distrutto e ricostruito dall’uomo; pertanto, una volta tolto via tutto ciò che era inaridito e decomposto, dovrà necessariamente esserci una rinascita, una nuova impostazione, soprattutto spirituale. Manca, però, un intento moralistico in Eliot, il quale, pur augurandosi un futuro riscatto, è cosciente di trovarsi ancora in una situazione di buio da cui traspare appena la luce della speranza. Pur fornendo indicazioni anche di tipo orientale, Eliot propone un’umanità ancora distante dal cambiamento; prenderne coscienza è tuttavia un passo necessario per la salvezza. Ci vorrà la finale illuminazione salvifica della fede perché il poeta approdi ad orizzonti più sereni e luminosi.

Occorre precisare che Thomas Stearns Eliot, naturalizzato inglese, è in realtà americano; prima ancora di essere poeta, studia da filosofo a Harvard e alla Sorbona segue il corso di Bergson: si interessa di percezione e di tempo. Scrive la sua opera più famosa all’età di 33 anni.

All’interno di questo lungo post intendo pertanto far luce sui seguenti temi:

- Il significato di “waste”
- La situazione socio-culturale
- L’opera.

Il termine “Waste” e il suo significato
In maniera semplicistica e riduttiva, “waste” è tradotto come “rifiuto”: questo è un significato derivato poiché il senso primario è quello dello “spreco”, della “perdita”: si allude a qualcosa di cui non si è fruito a pieno o al meglio delle possibilità. Ad esempio: “a waste of time” (una perdita di tempo); “what a waste!”, traducibile con “che spreco!”. Naturalmente, quando una cosa è sprecata, la si butta: ecco il significato derivato di “rifiuto”.
Per naturale conseguenza, The Waste Land non è dunque da intendersi come discarica o immondezzaio (dump, rubbish tip, landfill site); è, invece, una terra sprecata, lasciata a se stessa, in uno stato di desolazione.

La situazione socio-culturale (il quadro)

Siamo nel periodo direttamente posteriore alla Grande Guerra. L’aristocrazia è lentamente surclassata da un nuovo ceto, quello dei nuovi ricchi, i parvenu, che hanno tratto profitto dalla guerra ma che, pur essendosi economicamente ripuliti, rimangono fondamentalmente ignoranti e pertanto si fanno spesso portatori di mentalità meschine e ristrette, nonostante il pur sempre evidente sforzo di elevarsi. Con l’affermarsi di una borghesia competitiva, soppiantante i modelli autoritari e conservatori dell’aristocrazia, la crisi sociale è prossima perché è ribaltato un mondo che aveva mantenuto per secoli la propria identità.
La nuova società, insieme col fenomeno dell’urbanesimo, altera così lo stile di vita, non più a misura d’uomo, bensì scandito dai ritmi delle macchine, fin quasi a schiacciare l’individuo. […] Uomini incapaci di comunicare fra loro per via dei rapporti dettati dalla convenienza e dall’ipocrisia, un’autorità maschile messa in discussione da pretese di donne ormai indipendenti e suffragette, nuclei familiari in disgregazione. La modernizzazione della civiltà, ormai diventata “unreal” [irreale] era fonte di degradazione per l’uomo col rischio di essere coinvolto in un processo di massificazione, perdendo a poco a poco la propria identità e dignità. Una tale violenza umilia l’individuo che man mano diventa sempre più insensibile agli stimoli artistici e culturali.  

Culturalmente, il sovvertimento delle teorie tradizionali cambia le regole auree di qualsiasi espressione artistica. In musica, il jazz [“confusione”], genere emergente, decostruisce i fraseggi per poi ricomporli in maniera solo apparentemente disordinata a livello melodico, ritmico e armonico secondo una logica profonda ma alquanto complicata. La musica dodecafonica mette in discussione i sistemi tradizionali di composizione, con il risultato di un suono frammentario, stridente, anche qui solo apparentemente disarmonico. L’espressionismo vedendo l’uomo “nudo”, distrutto da un sistema borghese, burocratico, militare e industriale, privato della propria identità, ridotto ad una figura stilizzata, sembra esprimere con immagini e colori contrastanti l’angoscia psicologica dell’umanità che, vivendo in uno stato di alienazione disperata, sfocia nella violenza frenetica. La realtà è vista con toni aggressivi, dettati da presentimenti di morte e disastro. Il cubismo infrange per la prima volta l’interezza del mondo e, volutamente, ne propone una nuova e differente visione con diverse angolazioni spesso sconvolgenti. I fauves, così definiti per la violenta carica espressiva delle loro opere, oltrepassante il dato naturale, propongono una colorazione provocatoria attraverso l’uso di una tonalità pura, piatta, accesa, innaturale, esprimente un’emotività che le riprese cinematografiche e fotografiche non avrebbero mai potuto riprodurre, come esplicitamente dichiarava Matisse. Nella cinematografia, specie in quella russa, si sarebbe puntato poi sulla selezione e sull’organizzazione futuristica delle immagini in sequenza per far leva su emozioni e significati, anche a costo di amplificare smodatamente la realtà riprodotta.
Passato, presente e futuro, intrecciandosi e sovrapponendosi continuamente, fanno scomparire ogni logica di successione: solo discontinuità, flashback e monologhi interiori. Si descrivono i labirinti della psiche umana, proprio perché della realtà si ha una visione frantumata, essendo incapaci di fissare punti fermi. Lo stesso artista sembra aver perso la cognizione del centro delle cose (Kernlosigkeit); pertanto ogni esperienza presentata sembra assurda ed inutile: non avendo fiducia in se stesso, l’intellettuale gestisce la sua vita in maniera del tutto casuale, non potendo dare alcun valore ad azioni ripetitive che si rivelano puntualmente vane. La realtà non analizzata da un unico punto di vista ma da tanti che si accavallavano, perde ogni valore oggettivo: è espressione della mutevolezza dell’universo circostante che ha ora uno spessore diverso, come se per l’uomo non fosse più possibile costruire un percorso di vita. Anche stilisticamente la resa del prodotto artistico è scardinata, scomposta, riproducendo un mondo di cui è difficile individuare il senso.

Gli ingenti danni della Grande Guerra non investono solo i settori economico e militare, ma sconvolgono le menti degli uomini: chi torna dal fronte soffre spesso di disordini psicologici (shell shock) dovuti al terrore e all’angoscia sperimentati sul campo di battaglia e alla consapevolezza di aver contribuito ad un’inane opera di distruzione; chi è rimasto in patria, invece, assiste apaticamente all’inarrestabile mutamento del proprio mondo.

L’opera

The Waste Land, che collega la crisi dell’epoca presente alla simbolica interpretazione della desolazione negli arcaici riti della fertilità, è la terra invernale che sembra chiudere il ciclo e che ritualmente deve essere esorcizzata perché tornino la primavera e la fioritura delle messi. Nell’analogia tra antichità pagana e leggenda cristiana-medievale c’è la ciclicità che rende compresente la storia di uno schema trasformatosi nei secoli ma che conserva intatta una medesima tensione simbolica. Il metodo mitico, prima ancora di essere un procedimento letterario è, per Eliot, filosofia della storia.

L’intero poemetto si muove da uno stato di paralisi (sezioni I, II, III), procedendo in un viaggio allegorico (sezioni IV, V) nell’attesa di una rinascita simbolica. Tutta la prima metà dell’opera è una rappresentazione di un paesaggio desertico, di una società che nel progresso ha trovato il proprio fallimento e ogni sorta di corruzione, di individui privati della loro identità e visti in una staticità che è simbolo di morte. Le parti frammentarie sono accumulate da un unico tema centrale: il contrasto tra la fertilità di un passato mitico e la sterilità del mondo odierno, popolato di protagonisti perduti e alienati. Nascita e morte: questo è il ciclo umano, al quale corrispondono nella natura una rinascita, come un’attesa messianica di un elemento salvifico che ci purifichi e riconduca all’armonia iniziale, seguita da una distruzione totale. Il progresso non ha scalfito questa ciclicità, questo ritmo biologico fatale; l’uomo, malgrado ogni sforzo, è divenuto un elemento nella catena di montaggio di ogni attività. Sarà condannato a compiere ripetutamente le medesime azioni, divenendo numero indistinto tra tanti: farà, in sostanza, parte della folla, una volta importante a livello poetico e sociale, ora massa vuota e inutile, in cui si avverte “la catastrofe di un’emancipazione mancata”. La folla fluisce nella città (“una folla fluiva sul London Bridge, tanti, / Ch’io non avrei creduto che morte n’avesse disfatti”), accompagnata dal rintocco morto della campana; ma il suo scorrere è apparente, perché l’uomo massificato non riesce a vedere il suo percorso (“e ognuno fissava gli occhi davanti ai suoi piedi”); anzi rimane rigido nella sua staticità mentale e si lascia trascinare dagli altri in un cammino a lui quasi sconosciuto.
La spinta produttiva che ha cancellato uno stile di vita contemplativo o artistico a misura d’uomo, ha travolto anche le classi superiori. Nel “Le Prince d’Aquitaine à la tour abolie” non è solo l’aristocrazia – simboleggiata anche dalla Torre – ad infrangersi in maniera definitiva, ma anche la tradizione culturale che essa ha sempre recato con sé. Cade il ponte di Londra, cadono le torri nell’ora del tramonto della civiltà, decadono città simbolo di un passato glorioso e di un passato recente ancora trasudante arte e cultura. (“Qual è la città sulle montagne / Si spacca e si riforma e scoppia nell’aria viola / Torri crollanti / Gerusalemme Atene Alessandria / Vienna Londra / irreale”). Ora non esiste più nulla, solo macerie (“pietre rovinose”), solo “un mucchio di immagini frante”. Il passato esiste solo nella reminiscenza: la psiche conserva il ricordo di fasi passate della vita individuale, nelle quali era stata realizzata una soddisfazione integrale. E il passato continua a far valere le proprie esigenze verso il futuro e fa nascere il desiderio di un paradiso ricreato in base alle conquiste della civiltà. Marie, cugina dell’arciduca, riesce a ricordare l’inverno trascorso in montagna da ragazzina, quando scendeva giù per i pendii con la slitta (“Sulle montagne, là ci si sente liberi.”). Di tutto questo è rimasta unicamente la memoria: ora beve un caffè, seduta nello Hofgarten, chiacchierando di argomenti frivoli.

La corruzione ha coinvolto ormai anche la natura: persino un elemento catartico quale l’acqua è inquinato. Il Tamigi, evocato da Eliot come gli antichi facevano con le muse (“Dolce Tamigi, scorri lieto finché non finisca il mio canto, / Dolce Tamigi, scorri lieve perché io non parlo forte né a lungo”) ora “trasuda / olio e catrame” coi suoi “tronchi in deriva”, così che pure le ninfe si sono allontanate (“le ninfe sono partite”): non c’è più alcun segno di vita. L’acqua era un mezzo per obliare le angosce della vita, in grado di dare pace e di cancellare tremendi disonori; l’acqua del fiume, una volta fonte di fertilità come il limo del Nilo, è talmente inquinata da non essere più in grado di trascinare con sé neppure i rifiuti, gli scarti materiali della city. La contaminazione è dunque totale: non è più possibile pescare “nello spento canale”, ammorbato dal gasometro: il corso d’acqua è divenuto veicolo di corruzione, portatore di volgarità, mercificazione e materializzazione. Vede gli amori che non hanno avuto seguito, come quello di Elisabetta e Leicester, e il cadavere di Ofelia. L’acqua ha perso la sua funzione purificatrice, come nel caso della figlia di Mrs. Porter che cerca di lavare via l’onta con l’acqua di soda. (“O la luna splendeva chiara sulla signora Porter / E su sua figlia / Si lavano i piedi in acqua di soda”). La “morte per acqua” è presente anche nelle allusioni all’aristocrazia bavarese e nella tragica fine di Phlebas, il marinaio fenicio. Quest’ultimo è l’esempio dell’uomo contemporaneo che, annegando, riesce a liberarsi delle angosce della vita. Solo dopo una simile morte potrà esservi una rigenerazione con l’acqua, dopo l’arsura e l’aridità di una Cartagine bruciata, con l’acqua – archetipo taletiano senza la quale non c’è vita ed elemento purificatore dal peccato originale che elimina la materialità.

Già nelle antichissime civiltà agricole babilonesi ed egizie vigeva la credenza che il ciclo delle stagioni fosse legato a culti religiosi e debite cerimonie con offerte sacrificali di animali della cui carne ci si nutriva; in tal modo si credeva di restituire fertilità alla terra per preparare la rinascita della natura. Il ricordo di queste cerimonie votive, col sacrificio di tori nella civiltà minoica o di capri durante le Dionisie ad Atene, lo ritroviamo nella storia del Re Sacro, la cui perdita di potere inaridiva i campi e rendeva sterili gli armenti. Il re doveva dunque morire per risorgere, reincarnandosi in un’altra figura. Tale mito, che qualche storico o filosofo vede rivivere nella religione cristiana con la morte e la risurrezione del Cristo e con la ripetizione del rito sacrificale dell’ultima cena in cui ci si ciba del suo corpo e del suo sangue, sta a dimostrare quanto sia fortemente radicata nella coscienza collettiva degli uomini l’idea di una redenzione, legata al sacrificio dell’uomo-dio. La leggenda del Re Sacro è ripresa da Eliot nella versione cristiano-medievale del Re Pescatore, la cui infermità aveva prodotto una carestia nella natura e desolazione spirituale negli uomini. Sarebbe stato necessario il ritrovamento della coppa del Santo Graal, in cui era conservato il sangue di Cristo, e l’assunzione di questo da parte del re, perché una linfa vitale scorresse nuovamente nelle sue vene e si annullasse così la maledizione del wasteland.
L’immagine del Re Pescatore in The Waste Land ha, però, una sfumatura più intensa rispetto a quella che poteva aver avuto quella antica del Re Sacro. Mentre nel mito greco la soppressione dell’uomo progenitore era legata all’idea del matriarcato, come è evidente nella civiltà minoica, per Eliot la figura del Re Sacro è l’emblema della società moderna ormai in frantumi. Il Re Pescatore, di cui si è persa traccia, è l’immagine dell’essere umano che non c’è, la cui assenza impedisce la rigenerazione: ciò che rimane è l’uomo nelle sue molteplici accezioni, con la sua materialità, con le sue necessità fisiche che prevalgono – suo malgrado – su quelle spirituali. L’impossibilità della rigenerazione è dovuta quindi tanto all’uomo quanto alla donna, generati dalla “città irreale” e destinati ad accontentarsi solo di cose, simboli di potere e di lussuria, non sapendo aspirare ad altro nella vita.

L’uomo non riesce ad intravedere la salvezza perché la via della ricerca interiore è tortuosa, spossante e molto lunga. Preferisce annegare la propria infelicità nelle momentanee tregue che fallaci verità e valori superficiali possono offrirgli: le sue preoccupazioni sono solo sessuali ed economiche perché il godimento fisico e il possesso del denaro sono per lui un muro sufficientemente alto da impedirgli di scorgere le macerie di una vita distrutta in cui si dibatte. “Ora che torna Albert, datti un’aggiustatina. / Vorrà sapere che nei hai fatto dei soldi che ti ha dato / Per metterti dei denti. Te li ha dati, io c’ero. […] È stato nell’esercito quattro anni, vuole un po’ di spasso, / E se non glielo dai tu, ce n’è altre che glielo daranno, dissi.” Tra le cose che lo intrigano c’è l’automobile, come alter ego, “col suono di trombe e motori” a scandire ed affiancare la vita dell’uomo, quasi a segnare una nuova era; ma quei meccanismi che superbamente crede di dominare, in realtà, lo possiedono fino ad annullarlo. In The Waste Land non ci sono mote presenze maschili: Tristano e il marinaio fenicio muoiono, Stetson – chiamato a gran voce da Eliot – di fatto non lo vediamo, Albert è citato ma non è ancora rincasato (e comunque è rimasto nell’esercito), l’uomo incappucciato è invisibile e solo pochi ne avvertono la presenza. Si pensa che l’uomo sia destinato a non risorgere, anche perché non riprodotto: “È per quelle pillole che presi per sbarazzarmene, disse. / (Ne ho già avuti cinque e quasi moriva per il piccolo George).”
La donna, al contrario, conclude quasi sempre drammaticamente ogni sua relazione, scivolando nello squallore o nel disonore. La Belladonna, all’inizio della seconda sezione, intenta a gingillarsi con le suppellettili sulla specchiera, con un lusso sfrenato a farle da sfondo, è simile a quella della terza sezione che, in successione meccanica, dopo la cena e l’atto amoroso concesso con sufficienza, rimane anch’ella sola davanti allo specchio a pettinarsi con “mano automatica”, contenta di trovarsi sola. “Concede un ultimo bacio condiscendente […] è annoiata e stanca […] e prende come un benvenuto l’indifferenza”. Lo specchio, però, è solo in grado di restituire l’immagine di se stessi, non una nuova vita: per annegare nel suono la sua sconsolata tristezza, la donna fa girare il grammofono. Nei colloqui tra le donne al pub, nella seconda sezione, l’amore è degradato a merce ottenibile da chiunque: siamo al massimo dello squallore. L’eros scade nella maniera più totale: è un prodotto ottenibile a basso costo, richiede una certa messa in scena e discrezione rapida nella trattativa.
La crisi tra uomo e donna è originata dall’incomunicabilità: essi preferiscono rapporti sessuali senza impegno, piuttosto che costruire insieme qualcosa di solido. Il motivo è semplice: il rapporto ha bisogno di dedizione, ascolto, comprensione e talvolta sacrificio – cose la che la civiltà moderna non può accettare perché richiedono tempo e lavoro e non sono in grado di fornire risultati nell’immediato. A causa di tale meccanizzazione, che esige tutto e subito per paura di uscir fuori dai tempi stabiliti per la produzione, la serenità dell’animo è conseguibile molto difficilmente. Il tutto finirà coperto dalla routine stanca del tran-tran familiare. Rappresentando un elemento scomodo, la società arriverà ad eliminare il rapporto sentimentale, ritrovandosi, però, come logica conseguenza, sola con se stessa, come le donne allo specchio. Coloro che hanno provato a sfidare questa mentalità, come Ofelia o Isolde, rimangono ugualmente sole, perché la struttura nella quale vivono le ostacola: la prima impazzisce e poi si annega; la seconda perde il suo uomo. Anche una creatura pura come la figlia di Mrs. Porter o come la mitica Philomela, “così brutalmente forzata”, sono oramai perdute per sempre. Morte, anche qui, senza possibilità di rinascita.

Chi assiste, come in un montaggio alternato alla scena degli amanti della terza sezione è Tiresia che ha una conoscenza totale del mondo, riunendo in sé tutte le esperienze possibili: consce la condizione maschile e quella femminile (“vecchio con poppe avvizzite”) ed assiste impotente alla catastrofe umana. Come nella tragedia di Sofocle, mantiene il ruolo chiave di colui che dovrà rivelare la causa delle sciagure che si abbattono sull’umanità. La verità è per lui qualcosa di innato: perciò non necessita di aiuti esterni per percepire l’intima realtà delle cose. “Percepii la scena e predissi il resto”.
Il fatto che Tiresia sia cieco potrebbe alludere anche al fatto che non c’è nulla da vedere, nulla che valga la pena di essere salvato o per cui sia importante combattere. Allora i veri ciechi sarebbero gli abitatori della Terra Desolata e non il vecchio che, pur identificandosi con l’uomo, non potrà agire e cercare la strada della redenzione. Egli ha solo il potere della conoscenza, non quello dell’eliminazione del male dal mondo. Tale compito, pari a quello del recupero del Graal spetterà a colui che saprà scorgere la speranza della salvezza, a chi crederà che vi sia. Solo costui saprà vedere quello che gli altri non vedono, come l’uomo incappucciato, dalla dubbia presenza. “Chi è il terzo che ti cammina sempre accanto? / Quando conto, ci siamo solo tu e io insieme, / ma quando guardo avanti alla strada bianca / C’è sempre un altro che ti cammina accanto / Scivolando ravvolto in un mantello bruno, incappucciato / Non so se uomo o donna / – Ma chi è che ti sta all’altro fianco?”. È evidente il riferimento al viaggio a Emmaus, dove i discepoli non riconoscono Cristo, pensandolo morto. La salvezza è dunque nella fede: ma in quella di chi guarda avanti, verso la strada del futuro che è bianca, ancora da riempire con le nostre azioni e i nostri pensieri.

La stessa idea della redenzione si ritrova nella dottrina buddhista che richiede l’eliminazione dell’impurità attraverso il fuoco per poter accedere a una nuova dimensione: è la predica di Buddha contro la lussuria e le altre passioni che possono deviare l’uomo e che Eliot chiama “Il Sermone di Fuoco”, ma che gli ricorda anche il Purgatorio dantesco (“Poi s’ascose nel foco che gli affina). Solo dopo la purificazione dello spirito e del corpo potrà esservi una rigenerazione: il Gange basso e le foglie che attendono la pioggia (“Il Gange era basso, e le foglie flosce / attendevano la pioggia”) saranno allietate dal rimbombo del tuono che dispensa saggezza, che si articola sulla speranza che l’uomo s’impegni a migliorare, perpetrando il senso dell’amore puro e intatto, inteso come comprensione, partecipazione emotiva e dominio di sé. La religione, secondo Eliot, sarà l’unica chiave di volta nella vita dell’uomo e, attraverso questa, egli potrà permettersi di lasciare alle spalle quell’arida pianura (“con l’arida pianura dentro di me”) e pensare a come ricostruire ex novo la propria vita (“Riuscirò almeno a mettere ordine nelle mie terre? […] Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine / Be’ allora vi sistemo io.”). Attraverso questo passaggio tematico, dalle macerie alla salvezza, da una presentazione corale dell’umanità Eliot si muove verso la valorizzazione del singolo: ciò significa che la pluralità, ovvero la massa sul London Bridge, viene svalutata e che purtroppo il genere umano non sarà interamente destinato alla salvezza. I tre messaggi che giungono dal tuono non sono compresi da tutti; neanche l’incappucciato sarà identificato. Attualmente sulla Terra Desolata nessuna redenzione è intravedibile; ma l’Uomo Nuovo proposto da Eliot, che ha coscienza dei valori umani, è colui che superando la condizione terrena, se ne distacca. Ora può darsi che ciò si concretizzi attraverso la morte: ben venga se questo è l’unico modo per evitare la caduta. “Bruciando bruciando bruciando bruciando / O signore Tu mi cogli”.
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