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Lun Mar 11, 2024 2:20 pm
[1]. Quanto segue deve essere preso unicamente come un divertissement su una delle figure più emblematiche e bizzarre della letteratura social di Boni Castellane. Nessuna pretesa letteraria né filosofica né psicologica in quanto chi scrive è consapevole di non avere la necessaria preparazione. Ma questo lavoro sporco qualcuno doveva pur farlo. Questo divertissement, del quale si fa presente l’incompletezza, è aperto a ulteriori contributi da parte di chi ne abbia compreso lo spirito. L’umile intento è infatti stimolare ulteriori considerazioni – sia profonde che leggere – prendendo spunto da ciò che Boni ha scritto e scrive sul tema.

Buona lettura.

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Lun Mar 11, 2024 2:22 pm
“La gattara è una Pathosformel, non è semplicemente una persona che ha un gatto se no dovremmo pensare che anche Drieu La Rochelle lo sia stato…”. Boni Castellane, su X-Twitter

[2]. Per chi non ha studiato filosofia come chi scrive, la Pathosformel – “formula patetica”, da pathos nel suo significato originario – la possiamo intendere come un archetipo, un modello rappresentativo di una situazione tipica, di uno stato d’animo o di una condizione umana che, pur inserito nei contesti più disparati, diviene immediatamente riconoscibile e assume valenza generale e per così dire “ideale”. Una persona il cui semplice apparire la rende essa stessa idea, una forma che si fa essa stessa contenuto. Il termine fu coniato a inizio Novecento dallo storico dell’arte tedesco Aby Warburg e, per dirla da incompetente, è una rappresentazione artistica che trasmette a chi la osserva un concetto, un valore (o anche un disvalore, diciamolo) che prescinde dal tempo e dallo spazio. Una singola opera d’arte non è necessariamente rappresentazione (“formula”) artistica, né lo diventa se comunica all’osservatore un’idea che va oltre l’apparenza formale – l’arte tutta, a dire il vero, non è mai fine a sé stessa e vuole comunicare qualcosa oltre la forma – l’opera d’arte diventa “formula” se comunica con tanta più forza emotiva (pathos) un’idea quanto più riconoscibile, condivisa e senza tempo. Senza entrare qui nei dettagli, Warburg confronta l’arte greco-romana con l’arte rinascimentale e coglie elementi comuni pur nella differenza storica e di tecnica realizzativa. Lo storico porta come esempio la Venere del Botticelli e la ninfa delle statue greco-romane: esse sono, in sintesi, rappresentazione e comunicazione dell’attraente, del conturbante che persiste nei secoli. La Pathosformel della ninfa. Allontanandoci dall’arte figurativa di cui a Warburg e dal senso originario del termine, potremmo individuare queste “formule patetiche” ad esempio nelle maschere della Commedia dell’Arte. Ciascuna di esse rappresenta non tanto la provenienza geografica quanto un temperamento, un profilo comportamentale o un modo di essere. Ogni maschera, attraverso i suoi attributi esteriori, comunica un’idea (per sua natura astratta) generale, diffusa e condivisa di un determinato tipo umano in modo decisamente concreto, intellegibile ed… elegante (a cui l’arte, l’originalità, la non-banalità conferisce dignità e bellezza). Scendendo ulteriormente di livello, potremmo assimilare alle Pathosformeln la personificazione di tanti luoghi comuni, ai quali associamo caratteristiche fisiche e comportamentali, pur consapevoli che in tali caratteristiche finiranno persone che incarnazione di luoghi comuni non sono. È utile a tale proposito il Dizionario dei luoghi comuni di Gustave Flaubert. Il punto è saper comprendere la differenza sostanziale tra il senso letterale dei termini e il dileggio nei confronti di un dato modo di fare e pensare che con tali termini si intende richiamare.

E poi c’è la gattara.

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Lun Mar 11, 2024 2:24 pm
“Avere gatti non vuol dire essere gattare…”. Boni Castellane, su X-Twitter

[3]. La tematica della gattara è indubbiamente tra le più controverse nella letteratura social di Boni Castellane e puntualmente suscita forte malumore negli amanti dei felini che pur approvano e condividono il suo pensiero. Chi scrive ha avuto gatti – più di uno – per diversi anni della sua vita e continua ad apprezzarli e a preferirli ai cani, ma non si sente offeso dal termine gattara in quanto non ritiene di appartenere alla categoria platonica (sinonimo di Pathosformel) della gattara antropologica. Sottolineiamo il termine antropologica per distinguerla dalla gattara tradizionale, ossia la donna nota per apparire insieme a gatti o per prendersi cura di essi, a prescindere dal loro stato domestico o randagio, in autonomia o in concorso con altri. Essa non è una Pathosformel, bensì semplicemente donna con gatto, più o meno come fosse la Dama con l’ermellino di Leonardo Da Vinci o la Julie Manet dipinta da Pierre-Auguste Renoir. Ma perché allora non trovare un diverso termine per indicare la gattara? Un tipo umano non diventa Pathosformel grazie al marketing – anche se nel caso in questione ci sarebbe da riflettere – e se una profonda amante dei gatti degenera in gattara anziché fare volontariato in un’associazione per la difesa degli animali (le due cose sono diverse e, di norma, la prima esclude l’altra) questo è il prezzo che bisogna pagare. Gli abitanti di Cantù in Brianza, ad esempio, non sono tutti come il Marco Ranzani che si distingueva per il Porsche Cayenne con sopra il divano per cui non avrebbero ragione di rabbuiarsi. [Se dobbiamo dirla tutta, alcuni abitanti di questa città sono delle autentiche Pathosformeln.] Non è colpa di Boni Castellane se utilizza il termine gattara per rappresentare certe stravaganze, al contrario è colpa delle gattare antropologiche se sfruttano i gatti snaturando la rappresentazione di un’attività in sé meritevole di tutela. La Pathosformel scaturisce quasi da sé, i meccanismi grazie ai quali diventa tale non sono evidenti, sono simili ai meccanismi per i quali un contenuto Internet diventa virale o assume “dignità” di meme, meccanismi quasi ancestrali che sopravvivono – anzi, trovano più terreno per prosperare – ai tempi della digitalizzazione.

Posto che è impresa ardua descrivere la gattara senza incorrere nella disapprovazione delle sciure del gattile, Sentimenti e sensibilità servono per capire la differenza tra una gattara che va in Birkenstock alle presentazioni in Feltrinelli e Pierre Drieu La Rochelle, scrive Boni.

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Lun Mar 11, 2024 2:25 pm
“I valori simbolici trascendono l'individuo. I gatti non bastano a fare una gattara ma una gattara non può esistere senza gatti”. Boni Castellane, su X-Twitter

[4]. Boni Castellane puntualizza varie volte la distinzione fra gattara tradizionale e antropologica, ma purtroppo i social hanno la memoria corta e al successivo richiamo alle gattare riemerge il dissenso delle benemerite (no ironia) sciure del gattile. Le sciure del gattile sono sì vittime, ma non di Boni. Anche Boni stesso in fondo è vittima della persistenza delle gattare, se non fosse per l’eleganza con la quale egli se ne prende gioco.

Ora, posto che, nella bolla social di Boni Castellane, la gattara non è la signora dei gatti così come l’ingegnere non è chiunque sia laureato in ingegneria così come lo scrittore regionale non è necessariamente scrittore né (quando lo è) è tale perché ambienta le sue opere in una determinata regione – e qui si apre il next level di nuove Pathosformeln – come riconoscere la gattara antropologica?

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Lun Mar 11, 2024 2:26 pm
Gattare con i capelli viola che non mancano una presentazione in Feltrinelli, prendono appunti sulla Moleskine rossa e poi se li rileggono a casa ascoltando Manu Chao mentre scaldano l’hummus”. Boni Castellane, su X-Twitter

[5]. I ritratti narrativi delle gattare che sbucano a tradimento nel profilo social di Boni Castellane sono delle vere e proprie perle. Ma proviamo a esporre le tipiche caratteristiche esteriori della gattara antropologica, radunando quanto Boni ha scritto in materia. Naturalmente non occorre che coesistano tutte le caratteristiche affinché una donna – ma anche un uomo! – possa essere definita gattara; potrebbe anche non riscontrarsene alcuna, perché la potenza del concetto di Pathosformel va oltre l’aspetto fisico. Forma che diventa contenuto. Gattara is a state of mind, scrive Boni. Posto che la gattara può annidarsi anche dentro la donna più elegante del mondo (quindi, non necessariamente elegante), la statistica tuttavia prova che quante più caratteristiche esteriori si riscontrano, tanto più è probabile di essersi imbattuti in una gattara.

I capelli viola sono la caratteristica più evidente e frequente. Tingersi i capelli è attività frequente tra le donne e in sé non vi è nulla di male. Lo si fa perché si ritiene un diverso colore più in sintonia con la propria figura o il proprio abbigliamento, lo si fa per semplice moda – allo stesso modo del taglio – o lo si potrebbe fare come rito di passaggio o di espiazione, ad esempio alla fine di una storia d’amore. Ma quando la tinta si fa stravagante – e non si sta andando a un concorso di cosplayer – la faccenda si fa più complessa. Possono essere segni di riconoscimento di una comunità. Ci si acconcia in modo strano perché si fa parte di una determinata comunità o perlomeno si vuole farne parte. Chi scrive (senza avere conoscenza delle sue istanze, va detto) ha sempre associato il movimento punk alle acconciature estemporanee. Tuttavia ai punk, al netto dei propri gusti estetici, va riconosciuta una ricerca sui generis di armonia, di logica nello sviluppare il loro codice di abbigliamento. Visti con gli occhi del consulente IT esterno, sembrano cosplayers che “recitano” il loro personaggio sia nelle occasioni di ritrovo sia nella vita quotidiana. Recitano, sottolineiamo, perché essi sanno ancora distinguere il confine tra finzione e realtà. Ecco, la gattara antropologica è una specie di cosplayer che ritiene che il suo recitare corrisponda alla sua vita reale – o perlomeno pretende che sia tale – un cosplayer il cui costume non suscita un’idea di armonia e “bellezza” (sui generis) bensì, al contrario, disordine psicofisico e bruttezza.

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Lun Mar 11, 2024 2:28 pm
“Una gattara di 68 anni con i capelli cortissimi e i riflessi viola, sciarpa arcobaleno di lana grossa sempre su anche in casa, pantaloni larghi alla turca, zoccoli, calze rosse di lana e piercing anellino al naso”. Boni Castellane, su X-Twitter

[6]. E qui Boni Castellane dipinge la sgradevolezza in persona con un realismo da maestro della scuola fiamminga del Cinquecento. La gattara tipica non riconosce l’avanzare dell’età né il decadimento delle forme e continua ad abbigliarsi come ai tempi in cui era adolescente o poco più. Dove per adolescente non si intendono hot pants e t-shirt attillata su una taglia 40, il tema non è la “decenza” nel senso pudico del termine. Tuttavia non è importante sapere quanti anni abbia la gattara. Il suo aspetto esprime in ogni caso una forte dissonanza tra l’età anagrafica, l’età percepita dagli altri e l’età che si ritiene di avere, sia in eccesso che in difetto. Tale dissonanza si manifesta con capi di abbigliamento palesemente inadatti – nel senso pratico anziché morale del termine, puntualizziamo – all’età, alla figura e al portamento della persona che li indossa.

Ma paradossalmente, a fronte di un aspetto quanto mai trasandato, i capi di abbigliamento della gattara sono scelti con cura. Ma come? Ma che gusto ci sarebbe nelle sciarpe di lana grossa, borse di lana cotta, pantaloni che nascondono le forme (ché spesso meno male che le nascondono!), gonne lunghe da missione di borseggio in metropolitana, ciabatte Camper, sandali Birkenstock – perché la trasandatezza può costare cara – e magliette sbiadite di Emergency o dei Modena City Ramblers? Che differenza c’è rispetto ai tempi dei paninari? A quei tempi il valore dominante era l’edonismo e il codice di abbigliamento doveva rispondere a requisiti sostanzialmente economici: rivendicare l’appartenenza a una comunità branchée (o presunta tale) mediante una griffe sufficientemente cara che manifestasse un adeguato potere economico nei confronti degli altri, degli sfigati. Ma negli anni Ottanta le griffes sufficientemente care erano ancora aziende di moda in senso stretto, ossia vendevano capi di abbigliamento facendo leva – più che sulla qualità di realizzazione e sulla ricercatezza dei materiali – sul senso di appagamento personale e sociale che i loro prodotti avrebbero trasmesso agli acquirenti. Oggi non è più così. I prodotti del fashion system non devono più puntare sull’appagamento bensì trasmettere messaggi che nulla hanno a che vedere con la moda. Sostenibilità, inclusione, empowerment di genere [uno dei tanti…] ma uno deve davvero comprare per quel motivo lì una roba di una griffe famosa anche se a guardarla fa letteralmente c**are?

Sì.

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Lun Mar 11, 2024 2:29 pm
“Chi si identifica col brutto? Perché uno dovrebbe comprare un bene di lusso per peggiorarsi?”. Boni Castellane, su X-Twitter

[7]. Perché nel fashion system del XXI secolo si è alla moda non se ci si distingue dalla massa o se si è eleganti, ma se si veicolano proprio questi messaggi. E la gattara è tra i soggetti più ricettivi di questa strategia di marketing. È ancora vero che la moda serve ad assecondare un bisogno di appartenenza, è in fondo una forma di rimedio contro la solitudine, ma se un tempo per rimediare a questo bisogno ci si “migliorava” (o perlomeno si puntava a farlo) oggi invece non occorre più “migliorarsi” bensì credere e diffondere le istanze sociopolitiche sponsorizzate dal detentore del marchio. Le gattare sono in realtà consapevoli di non poter migliorare il proprio aspetto, per cui si raccolgono intorno a prodotti e marchi che veicolano questa consapevolezza – quindi le ballerine Camper invece delle zeppe Louboutin, per dire – ma la cosa curiosa è che non trovano in tali acquisti il loro equilibrio psicofisico come prevede il consumismo tradizionale, anzi ritengono di farsi portatrici delle istanze sociopolitiche veicolate dai marchi e, in particolare, imporre tali istanze al resto del mondo.

Dall’abbigliamento di determinate origini il passo è breve verso gli accessori, le stringhe arcobaleno, la Moleskine rossa (con segnapagine arcobaleno, va da sé), la borsa di lana cotta da commercio solidale e/o da economia circolare, la matita che fa su i capelli (viola, ovvio), il tatuaggio There’s no planet B (magari il primo tatuaggio fatto a 68 anni), il piercing al naso e/o alla lingua, gli adesivi femministi e/o antifa sulla bicicletta a pedalata assistita o sul monopattino elettrico (perché, vuoi che la gattara si sposti in auto?!?) e così via. Sono consumi che espressamente veicolano un messaggio sociopolitico – forme di ecologismo, terzomondismo e gauchisme in senso esteso – e che richiedono una qualche forma di proselitismo in aggiunta all’acquisto. La moda come l’abbiamo sempre conosciuta, al contrario, fa leva sul narcisismo.

L’alimentazione della gattara non può che seguire questo schema. Salutismo – la tisana al cardamomo (ma non quella alla cannella perché sa di strudel) ma non perché soffra di intolleranze o di altra patologia – veganesimo [uhmmm… e cosa mai darà da mangiare al gatto?], cibo etnico – lo hummus è buonissimo perché le ricorda il maghrebino che una volta è venuto a ripararle la lavatrice che perdeva, nooo i pierogi ruskie no a meno che non li chiami ukraińskie, e in fondo anche la torta di farina di grilli non è poi così male [uhmmm… e il veganesimo?] – in altre parole la gattara non si ciba di alimenti il cui gusto oggettivamente gradisce o che abbiano oggettive proprietà salutari, la gattara si ciba di ciò che rappresenta il suo modo di essere – o meglio, il suo modo di voler essere, anche e soprattutto sacrificando sull’altare della dea Bastet il principio di non contraddizione alimentare.

E poi vi sono i consumi immateriali. Anch’essi, come i prodotti evocati più sopra, devono soddisfare requisiti sociopolitici e soprattutto testimoniare l’adesione a tali requisiti e a chi li promuove. Non occorre che un artista o un intellettuale sia oggettivamente capace, l’importante è che egli si faccia portatore di messaggi sociopolitici di sostenibilità, pauperismo, genderismo [uno dei tanti…], vittimismo etnico-sociale e le altre parole chiave della sinistra antropologica. Proverbiale è frequentare le librerie Feltrinelli – o altri esercizi commerciali di analogo orientamento politico-culturale – per assistere alle presentazioni dei libri degli scrittori regionali e fare la coda per la dedica personalizzata da parte dell’autore. [Eccezione: andare alle presentazioni di In terra ostile e farsi fare la dedica da Boni Castellane in persona, come ha fatto chi scrive, non significa essere gattara.] Il consumo di musica segue la stessa logica. Autori e generi che vendano i messaggi di cui sopra, da cui la playlist di Manu Chao e degli Inti Illimani (l’antifa latino ha infatti origini lontane), delle citazioni di Osho (non quello delle vignette!), dei virtuosi dei bonghi (qui per via della folgorazione per il gambiano di Glovo che una sera ha portato lo hummus), i Modena City Ramblers, Jovanotti e coloro che sventrano le spiagge per fustigare gli incoscienti ambientali durante i concerti. Chi scrive ha una playlist che spazia dal folk veterolocalista alla Italodance alle schifezze balcaniche da lap-dance per cui Chi è senza peccato scagli la prima pietra, però io non vendo la mia playlist come musica d’arte. A volte è un curioso espediente per fare uscire allo scoperto le gattare mimetizzate da donne eleganti. Vi sono poi consumi un po’ più “sociali”, da cui – la gattara in effetti si ciba anche di new age – le sedute di autocoscienza, di norma al circolo ARCI, alla Casa delle Donne o al centro sociale (qui insieme al maghrebino e al gambiano di cui sopra). A volte la gattara cerca di tenersi in forma e frequenta la palestra, ma solo a Natale o nelle più importanti feste comandate [anche a chi scrive stanno sulle balle le feste comandate, però io il Natale lo passo con le persone che più mi stanno a cuore] o in subordine nel primo pomeriggio dei giorni feriali dopo che tutti quelli che hanno fatto pausa pranzo caricando con gli attrezzi se ne sono andati. Va da sé che le palestre scelte dalle gattare sono quelle che rifiutano l’iscrizione agli uomini – Non sia mai che quei maiali mi guardino il c**o mentre faccio tapis roulant! Non è detto però che il motivo per cui ti guardino sia quello che pensi tu.

E poi, sempre a proposito di consumi sociali, abbiamo il catoga, elemento fondamentale del profilo della gattara.

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Lun Mar 11, 2024 2:30 pm
“Se c'è un’iniziativa woke stai sicuro che la trovi a Milano tra una gintoneria e un corso di catoga…”. Boni Castellane, su X-Twitter

[8]. Per intenderci, il catoga portmanteau di cat e yoga – è lo yoga praticato insieme al gatto. Lo yoga – si legge in un’intervista all’organizzatrice di questi corsi – è già di per sé molto rilassante poiché, in una giornata piena di impegni, aiuta a trovare quel momento in cui si stacca la spina e ci si concentra solo su sé stessi. Con i gatti c’è qualcosa in più. La nostra in realtà non è in grado di spiegare il valore aggiunto della presenza del gatto rispetto a lasciarlo a casa a godere dell’assenza della padrona, ma 20 euri a lezione e varie formule di abbonamento – nonché le iniziative a pagamento su Zoom, per quelle che temono i virus respiratori – dovrebbero fugare tutti i dubbi. Individuare il mercato di riferimento, convincerlo con campagne mirate che l’acquisto del prodotto rafforzi il senso di appartenenza a una comunità, fatturare, fatturare, come dicono a Milano. L’idea di esercizi pubblici popolati da gatti (non adibiti alla cattura di topi) non è nuova – sono famosi i neko café nati in Giappone – il catoga intende catturare quel segmento di mercato delle gattare particolarmente restie all’alimentazione (quelle che non mangiano fuori in quanto la tisana al cardamomo basta e avanza) e particolarmente attratte dalle filosofie orientali. [Attrazione non significa necessariamente comprensione.] Per ammissione stessa dell’organizzatrice, il catoga può fungere anche da gattile à la page – molto “milanese” quindi – in quanto le gattare possono accrescere lì la loro prole pelosa senza andare al rifugio delle associazioni animaliste.

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Lun Mar 11, 2024 2:31 pm
“Quanti gatti?”. Boni Castellane, su X-Twitter

[9]. Naturalmente, i gatti ospitati a casa della gattara antropologica sono più di uno. Boni Castellane ritiene che 7 (Oltre i 6, scrive Boni) sia il numero minimo, tuttavia non occorre cercare una colonia felina per individuare una gattara – e proprio in questo sta la differenza con la gattara tradizionale. In ogni caso, più gatti possiede la gattara, più essa si sente gratificata nel suo essere. Quanti gatti? è la domanda esiziale che Boni pone agli interlocutori social che, in base alla loro cronologia, si sospetta corrispondano al profilo comportamentale della gattara. Mai scommettere contro Boni Castellane su questo tema. Mai.

Conseguenza più evidente del possesso di un elevato numero di gatti è che – rileva Boni – le gattare praticamente non possono andare in vacanza.

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Lun Mar 11, 2024 2:32 pm
“Antropomorfizzare il gatto è l’essenza stessa di ogni gattara”. Boni Castellane, su X-Twitter

[10]. Se una preferisce gli animali agli esseri umani perché questi ultimi le hanno portato più seccature che soddisfazioni… come darle torto. Se una riconosce tutte le razze feline dai graffi che tirano e si fa tutte le mostre che il suo budget le permette, allora è una “semplice” appassionata di gatti. Ma quando una comincia a dare della bambina alla propria gatta – e viceversa a dare dei cuccioli ai propri figli, casomai esistano – allora la deriva gattara è dietro l’angolo. Con la giusta sensibilità da parte dei parenti lo stato patologico può rientrare, ma se non si interviene il demone della gattara si impadronisce senza pietà della paziente.

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Lun Mar 11, 2024 2:33 pm
“Quando dico gattara non ce l’ho coi gatti anzi questa sicuramente chiama Amore il cane gli fa le domande e poi gli dice Allora mi rispondi o no cos’hai sei arrabbiato?”. Boni Castellane, su X-Twitter

[11]. Quando si dice Antropomorfizzare il gatto. [Il cane – anziché il gatto – che chiami Amore prova che la gattara è una Pathosformel. Va oltre il senso letterale del termine.] Quando tu letteralmente sostituisci la figura umana con quella felina, interagisci coi gatti così come con gli esseri umani – ma se interagisci in quel modo con gli esseri umani ti prendono per pazza – e condividi non solo la casa ma anche gli oggetti personali coi gatti, lì c’è la gattara antropologica. La gattara tradizionale, al contrario, pur amando i gatti conosce bene e rispetta la loro natura e mai si sognerebbe una tale promiscuità con loro.

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Lun Mar 11, 2024 2:34 pm
“Come conciliare mascherina e distanziamento con il rischio toxoplasmosi praticamente quotidiano?”. Boni Castellane, su X-Twitter

[12]. Curioso constatare come la spiccata ipocondria della gattara – che il circo COVID ha semplicemente reso evidente, in quanto ha origini più lontane – strida coi comportamenti non molto amici dell’igiene nei confronti dei suoi gatti. Al netto del discorso più ampio sull’igiene personale – depilazione delle ascelle, visite dalla parrucchiera per motivi diversi dalla tinta viola, quella bizzarra credenza per la quale il sapone modificherebbe il pH vaginale – pettinarsi con la stessa spazzola usata per il gatto, il pile letteralmente di peli di gatto (perché la lavatrice perde ancora e il maghrebino è al paesello con le quattro mogli), baciare i propri figli pelosi sul naso, dormire con loro nel lettone sotto le coperte [eccezione: la lettiera tecnologica che si autopulisce senza l’intervento della padrona grazie all’intelligenza artificiale, al prezzo irripetibile di 599,99 euri] è una condotta da più parti riconosciuta a rischio di svariate malattie la cui probabilità di contrarre è drammaticamente superiore ai più pericolosi virus respiratori ingegnerizzati in laboratorio. La contraddizione fra ipocondria verso gli umani e promiscuità verso gli animali è uno dei numerosi attacchi della gattara alla logica aristotelica.

Tornando al tema dell’antropomorfizzazione del gatto, in linea di principio il profilo comportamentale della gattara rientra fra le forme di frustrazione. Non è questa la sede per una diagnosi medica, tuttavia è innegabile che vi siano sintomi di una qualche patologia. Difficile capire se e quale sia stato il cosiddetto evento di stress (per usare una terminologia cara alla squadra di Criminal Minds) che abbia scatenato la follia gattara – psicotrauma infantile, incidente stradale, delusione sentimentale, prelevamento da parte degli alieni (i capelli viola da signorina di UFO in effetti fanno sospettare di quest’ultima opzione) – vero è che la gattara non ha mai superato la fase dell’elaborazione del lutto e, anziché per così dire scendere a patti con la figura o la situazione responsabile dello stress, scarica la frustrazione su tutto ciò che non rientra nei suoi canoni concettuali ovvero la scarica su succedanei che le provocano dipendenza – il rapporto della gattara col gatto non è dissimile da quello dell’alcolista con la bottiglia – e soprattutto si ritiene investita di una missione di redenzione del mondo. A differenza della gattara tradizionale, tre degli aspetti fondamentali del carattere della gattara antropologica sono infatti 1) il risentimento nei confronti dell’armonia e della bellezza – ciò che un tempo dalla parrucchiera si definiva semplicemente invidia (ad esempio, sostenere che il catwalking sia mercificazione della donna è semplicemente un modo ipocrita per non ammettere di non saper camminare), 2) persistere nell’amore o più propriamente nell’infatuazione verso chi non ricambia lo stesso sentimento – o, come il gatto, non può ricambiare lo stesso sentimento (in certi ambienti equivoci si usa l’espressione Fiore di plastica), 3) le istanze della gattara non possono che essere le istanze della società tutta e non vi dovrebbe essere alcuna ragione per cui la società non vi si dovrebbe adeguare.

Sotto quest’ultimo aspetto sono fondamentali le figure dell’insegnante e della preside gattara. Il fatto che le sciure del gattile non siano necessariamente stipendiate dal ministero della pubblica istruzione dovrebbe far comprendere alle donne che semplicemente amano i gatti che non si sta alludendo a loro.


Ultima modifica di 8603 il Lun Mar 11, 2024 2:54 pm - modificato 2 volte.

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Lun Mar 11, 2024 2:37 pm
“La figura della funzionaria del catasto sesto livello con le unghie finte lunghe 6 cm che fa una pausa caffè ogni 20 minuti non è il mostro finale. Il mostro finale è la preside gattara perché lei sente di svolgere una funzione educativa e non solo sui gatti…”. Boni Castellane, su X-Twitter

[13]. L’ambiente scolastico è tradizionale feudo delle gattare. Il motivo non è semplicemente il pubblico impiego – evocare il parassitismo statale, vero o falso che sia, è una piccola parte del tema – bensì il fatto che l’istruzione sia il contesto nel quale si formano – e ahimè si condizionano – le coscienze. Non per nulla un’insegnante è tanto più gattara quanto più sono giovani (e influenzabili) gli alunni che le vengono assegnati. Alla gattara non sembra vero di poter applicare nel programma d’insegnamento tutte le agende che ha assorbito al centro sociale e alla Casa delle Donne (insieme all’idraulico maghrebino e al gambiano di Glovo) – i gatti, nonostante l’opinione contraria della gattara, non sono per nulla ricettivi sotto questo aspetto, per cui lasciamola vivere nell’illusione del veganesimo dei suoi sette gatti – per cui trovano finalmente nell’indottrinamento dei bambini lo sfogo alla loro frustrazione. Si tratta infatti di frustrazione e non realizzazione personale, in quanto nel mondo reale le loro istanze vengono combattute o più spesso ridicolizzate. La combinazione fra gattare, agenda woke e bambini è il fattore decisivo che compromette le capacità cognitive delle giovani generazioni.

Per chi non crede nell’esistenza delle gattare insegnanti, la crociata – virtualmente vinta – contro il presepe nelle scuole ne è la prova più evidente.

Mentre la preside gattara d’accordo che non insegna più, però è importante perché incarna la figura eroica della gattara che ce l’ha fatta dopo anni di precariato, di concorsi all’Ergife e di pendolarismo interregionale.

Sempre per chiarire la differenza sostanziale fra gattara antropologica e gerente della colonia felina, L’oggetto non sono i gatti ma i comportamenti morbosi di alcune precise persone, scrive Boni Castellane.

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Lun Mar 11, 2024 2:38 pm
“Meno male dai il Fascismo è finito e Morisi Love is love. Altri cinque anni di assessorato per la zia gattara e i fondi per la danza migrante inclusiva. La vita continua”. Boni Castellane, su X-Twitter

[14]. Il parassitismo del pubblico impiego – oltre all’insegnamento vi sono i servizi sociali e la mediazione culturale – va quasi sempre a braccetto col profilo comportamentale della gattara. Questo perché nessuna mente sana finanzierebbe l’agenda didattica che la gattara fa propria – e non per nulla tale programma non viene finanziato reperendo fondi sui mercati regolamentati bensì stabilendone l’obbligo grazie all’occupazione delle posizioni di potere. L’agenda non prende spunto da realtà oggettive bensì dal misterioso concetto di Agenda setting proprio delle tecniche di comunicazione, che la gattara si ritiene in dovere di applicare. Poi alla fine il livello è molto più venale in quanto – scrive Boni – Di quello che mangia la gente non gliene è mai fregato niente. Un giorno Bum l’agenda dice che bisogna parlare del cibo e allora si inventano i bambini delle scuole che mangiano più carne di un giaguaro e ci vogliono i fondi comunali per i corsi fatti dalla fidanzata gattara.

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Lun Mar 11, 2024 2:39 pm
“Lo definirei Reazione gattara”. Boni Castellane, su X-Twitter

[15]. In sintesi, la reazione gattara è una forma di nevrosi e di isteria. Se nel mondo reale un qualsiasi fenomeno non corrispondente ai propri schemi suggerisce che qualcosa si sia sbagliato nell’analisi preliminare oppure che non si sia materialmente in grado di influire su tale fenomeno, nel mondo delle gattare invece ciò scatena una reazione emotiva incontrollata tale per cui la colpa è tutta di chi fa notare la discrepanza, il requisito non adeguatamente considerato, il limite oggettivo. A chi scrive è capitato a volte, nell’ambito professionale, di avere a che fare con questo tipo di persone – non mi è dato sapere se esse fossero dotate di gatti, anzi non mi interessa perché già avevo individuato la Pathosformel – far notare che una data procedura ha tempi di esecuzione non negoziabili, che una data modalità di implementazione dipende da prerequisiti che a loro volta devono essere implementati, che per prendere determinate decisioni occorre che il cliente ne sia pienamente edotto e reso consapevole, far notare tutto questo quando il responsabile di progetto ha invece venduto un’implementazione globale come fosse il download di una app sullo smartphone, un responsabile di progetto serio ragiona con la squadra sul possibile riposizionamento (da concordare poi col cliente) mentre una gattara se la prende col consulente, il quale ovviamente la prende a male parole [meritate dalla prima all’ultima]. Più in generale, la reazione scomposta al fallimento dei propri schemi mentali – perché nel mondo reale sono più le cose che vanno male di quelle che vanno bene e dobbiamo farcele andar bene – è un’ulteriore forma di frustrazione che conferma le caratteristiche di base della gattara. La scienza medica prepandemica attribuiva questo tipo di reazioni al menarca, ma oggi non si può più dire Sei arrabbiata? Hai il ciclo? senza rischiare il posto o un processo per discriminazione di genere [uno dei tanti…], a meno che non si trovi nello stesso ambiente lavorativo un uomo con identici problemi all’apparato riproduttivo. [Sì, esistono, e non è una leggenda da romanzo queer.]

Anche una persona normale potrebbe avere reazioni gattare di fronte alla militanza contro la logica aristotelica. Tuttavia Boni Castellane ci dà sempre buoni consigli: Per fare complottismo delirante – genere che approvo e apprezzo – non bisogna dare l’impressione di essere indignati se no sei a una presentazione in Feltrinelli con le gattare in Camper che prendono appunti sulla Moleskine rossa col segnapagine arcobaleno.

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Lun Mar 11, 2024 2:40 pm
Donne buone uomini cattivi non sta in piedi neanche tra le gattare coi capelli viola perché dopo 3 minuti parte l’hate speech nei confronti di quella che non è venuta perché si vede con uno conosciuto su Tinder…”. Boni Castellane, su X-Twitter

[16]. Il femminismo tossico – in sintesi, il risentimento a priori nei confronti del genere maschile – è caratteristica assai frequente della gattara. In altri contesti si usa il termine melanzana ma esso non coglie la profondità della Pathosformel. Curioso constatare – ma alla luce dei paragrafi precedenti non dovrebbe stupire – come la gattara faccia del disprezzo per il genere maschile una ragione di vita più forte del benessere dei propri sette gatti (e quindi le troviamo puntualmente alle manifestazioni delle scarpette rosse – a scanso di equivoci, non intendiamo la Pallacanestro Olimpia Milano acerrima nemica della Pallacanestro Cantù) mentre al contrario le troviamo sgolarsi per l’accoglienza dei sans papiers di Lampedusa e contro l’incarcerazione del gambiano di turno che non ha saputo tenere la cerniera dei pantaloni a posto. [Fondamentalmente perché se il gambiano di Glovo dal fisico pazzesco a cui danno la mancia quando porta lo hummus non glielo vuole dare allora non è possibile che gli altri gambiani lo diano, o no?] Evidente è l’attacco alla logica aristotelica. Ma la cosa peggiore non è tanto il disprezzo per il maschio purché sia caucasico eterosessuale, quanto il fatto che, nel caso una gattara intrattenga una relazione sentimentale con un altro essere umano – non importa che la relazione sia vera o sia un fiore di plastica, spesso al contrario la gattara single “proietta”: Quindi gatti oltre i 6 e storie con uzbeki (scrive Boni) – la competitività e la malignità della sciampista si scatena come non mai. [Ma la gattara non andava mica dalla parrucchiera solo per la tinta viola per tornarci solo a ricrescita completa?] E qui ritorniamo all’invidia come caratteristica innata della gattara. Il finale ampiamente prevedibile della love story è che la nostra torna a casa dai sette gatti sorseggiando la tisana al cardamomo contro l’ecoansia.

Le gattare più scaltre invece cavalcano il femminismo tossico per scopi molto più venali. Posto che il fenomeno è quanto mai complesso e le derive della sessualità postmoderna meriterebbero uno sviluppo a parte, qui il tema da evidenziare è che chi scrive è troppo vecchio per capacitarsi dell’esistenza di una domanda di certi servizi considerato che riguardo all’offerta era più serio lo Scioglipancia di Wanna Marchi. Boni Castellane sintetizza con la consueta efficacia: L’attacco concentrico gattare-maschi beta è un’operazione di lobbying di OnlyFans per farsi pagare un abbonamento flat ogni volta che c’è un’Adunata degli Alpini. Diabolici.

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Lun Mar 11, 2024 2:41 pm
[17]. Quanto raccolto nei paragrafi precedenti si spera abbia fatto comprendere quanto la figura della gattara antropologica sia lontana dalla semplice donna con gatti o dalla gerente della colonia felina. Se la gerente della colonia felina si sentisse ancora offesa dall’utilizzo di questo termine nella bolla social di Boni Castellane, sappia che il numero delle gattare è drammaticamente inferiore a quanto si sia portati a credere e, per il solo fatto di leggere Boni, difficilmente rientrerà in quel numero. Boni infatti ne fornisce una stima affidabile:

“Credere che abbia ancora un senso dire I fascisti al governo nominano fascisti, scendiamo in piazza! presuppone pensare che il numero di gattare con i capelli viola che inforcano le ciabatte Camper sformate e la sciarpa di lana cotta sia su per giù 2.000.000. Invece sono 200”. Boni Castellane, su X-Twitter

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